giovedì 15 gennaio 2009

Una vita al casello (pubblicazione del 14/01/2009 sulla rivista www.Sagarana.net)

UNA VITA AL CASELLO





Io vivo in una vecchia casa di campagna, sperduta nella pianura pontina. Uno di quei casolari costruiti a seguito della grande bonifica. Hanno tolto la melma ma solo in apparenza. Per carità è un bellissimo posto, pieno di verde e di alberi di Eucalipto, parte integrante oramai della flora regionale. I Pini Marittimi protestano, ma non hanno alcun potere. In quest'oasi oramai considerata un lusso, anche se nessuno ci vuole venire ad abitare, preferendo l'orrendo e claustrofobico appartamento di due stanze, purché nella metropoli etichettata ma certa, c'è un insediamento insolito.
Un vecchio casello della ferrovia, di quelli rossi, al bordo delle rotaie, completamente diroccato e abbandonato è abitato da anni da un uomo, un certo Mohamed, che viene dal Marocco. Io sono arrivata in questo posto che avevo circa 28 anni e Mohamed ne aveva poco più di me. Ci siamo spesso incrociati al pozzo, dove lui caricava bidoni d'acqua, trasportati poi con una vecchia carriola trovata nella discarica, buttata da noi. Lui mi raccontò della sua famiglia, della moglie e della scelta di vita che aveva fatto per mantenerla.
Io ero giovane, non avevo ancora una famiglia, per cui quello che percepivo ero solo una certa nostalgia, ma giustificata dal coraggio e incoscienza che la nostra età ci permetteva. Passarono gli anni e io mi feci una famiglia. Mohamed continuavo ad incontrarlo al pozzo, al quale l'acqua non veniva mai negata e riprendeva a raccontare…anche lui aveva avuto dei figli, ma doveva rimare in Italia per guadagnare soldi e dargli un futuro. Ai miei occhi rimaneva un estraneo, anche se i suoi racconti mi lasciavano una strana tristezza nel cuore. Mi chiedevo, oramai madre: – ma come fa un padre a rimanere lontano dai suoi figli, non vederli crescere per tutto questo tempo? –. mentre uscivo da casa lo scorgevo prendere una vecchia bicicletta ferrosa e pedalare chilometri fino a raggiungere la città, che a malapena dava da mangiare a lui.
Faceva tutti i lavori che gli capitavano, muratore, pittore, uomo di fatica, manovale, tutto purché fosse remunerato, anche un minimo. Sono sempre stata tentata di dargli un passaggio, ma avevo paura. Mi avevano messa sull'attenti, fatto capire tutti che non ci si poteva fidare di un uomo, straniero, lontano dal suo paese, senza una donna…e io passavo oltre. Passarono gli anni e lui rimase al casello. Ogni tanto domandavo a mio marito ingenuamente, se ogni tanto tornava a casa…se aveva messo a posto la famiglia…
Io spesso andavo a correre in questa tenuta selvaggia e incontaminata e passavo davanti a casa sua…panni stesi ad asciugare, tetto riparato alla meglio e piccolo orticello per la sopravvivenza. Non mi sembrava se la passasse bene, nonostante il lavoro…pensai che tutto il guadagno fosse, ovviamente, spedito a casa. Sono passati tanti anni, oramai ho una figlia di 13 anni e l'altro giorno l'ho incontrato tornando a casa. Lui, Mohamed, aveva la solita bicicletta scassata, ma adesso sulle salite, la portava a mano…notai i capelli grigi e mi prese una stretta al cuore.
rano passati così tanti anni? Lui era ancora lì, con la sua bici, senza più forze. Ancora a fare la stessa vita, da solo, ancora a faticare per mandare i soldi a casa. Ma quante volte avrà visto sua moglie? Quante volte avrà abbracciato suo figlio, quante volte gli avrà dato un bacio prima di uscire di casa? Quanto tempo è passato sopra la sua vita, senza che io me ne rendessi conto? E lui? Mi sentii in colpa, in colpa per tutto. Per la vita di merda che lo ha costretto a questa scelta, per la mia naturale indifferenza, per tutto quello che non ho fatto e mai avrei potuto fare per lui. Improvvisamente avvertii la sua forza d'animo e contemporaneamente presi coscienza della sua vita sprecata. Una vita passata a faticare, a vivere in una capanna, senza soddisfazioni, né affetto, lontano da tutti, una vita il cui solo senso era quello di mantenere la sua famiglia, senza averla con sé. Oggi non so se compatirlo o incazzarmi con lui. Non c'era una soluzione alternativa? Che senso ha avuto consumare una vita in solitudine? Era meglio pane ed acqua, ma stare assieme! L'altro giorno l'ho incontrato al pozzo, gli ho chiesto – Come va Mohamed?–. – Bene, grazie e le bambine? –. – Bene, sì… la casa che stavi costruendo? La famiglia? Quando torni a casa? –.
– Spero presto… – Mi rispose.
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Daniela Rindi: Ex attrice, lavora nel cinema con Federico Fellini, Roberto Benigni, Monica Vitti, Elliot Gould, Catherine Spaak, Carlo Verdone, Lino Banfi, Paolo Villaggio, Renato Pozzetto, Fabio Testi, Nino Manfredi, Ornella Muti, Sergio Castellitto. In teatro lavora con Mario Scaccia, Beppe Barra, Tino Schirinzi, Gianrico Tedeschi, Ingrid Thulin.
È stata responsabile Ufficio Stampa e Relazioni Pubbliche al: Teatro Carcano di Milano,Teatro Nazionale di Milano,Compagnia di Lindsay Kemp Company e presso il Regista Augusto Zucchi. Nel 2007 Inizia a scrivere racconti che vengono pubblicati on line da Booksbrothers, Fernandel, LibriSenzaCarta, Musicaos, Sagarana, Blogosphere, Promesse d’autore, Altra Musa. In cartaceo pubblica per la Giulio Perrone Edizione, Cicorivolta Edizioni, Il Foglio Letterario di Gordiano Lupi. Sta scrivendo il suo primo romanzo.
Ha quattro blog, tra cui:
http://danielarindi.blogspot.com/
http://alwaystiredmum.blogspot.com/

2 commenti:

Anonimo ha detto...

daniela, qué vida esta, llena de tristezas

sin embargo la amistad y el cariño siguen vivos, aquí y allá, y seguirán vivos siempre

un beso, linda

s

damielarindi ha detto...

grazie Santi, come stai? Io ti leggo sempre! Un bacio.