venerdì 27 febbraio 2009

P.P.P


P.P. di P.
( Peli del Pube di Pavia)

E’ un grigio e molto milanese pomeriggio d’inverno. Mi sto annoiando a casa, tentando telepaticamente di trasformare un foglio bianco in qualcosa di leggibile. Anche a Milano ci si può annoiare se ci si mette d’impegno. Squilla il telefono. E’ Mario che mi invita a casa di un amico dove si svolgerà un reading, che altro non è che una lettura ad alta voce di un testo, a Pavia. Accetto e aspetto che passi a prendermi. Pavia è una cittadina deliziosa abitata principalmente da studenti universitari. Camminando per il centro si ha l’impressione di vivere in un campus. Mario è un mio caro amico meridionale. Anche lui scrive e lo fa con genialità e fantasia. Lo considero uno sperimentatore, un pioniere della scrittura. anche se a volte non ci capisco proprio niente. Però sono i suoni delle sue frasi che mi prendono, l’armonia delle parole, anche se incomprensibili. Uno stile completamente diverso dal mio, quindi ammirevole. Facciamo parte di un’associazione, quasi anonima, di scrittori che si dilettano in racconti e in esperimenti di scrittura collettiva. I suoi genitori si trasferirono a Milano tanti anni fa per i soliti motivi economico-lavorativi e non sono mai più tornati a casa. Mario però si sente molto legato alla sua terra, visceralmente, come tutti gli uomini del sud. Se la sentono dentro, hanno un grande senso di appartenenza, si aiutano, si spalleggiano, fanno clan. E’ difficile entrare a far parte del loro giro, ammettono qualcun altro solo dopo un’attenta selezione. Poi però ti danno anima e cuore, proprio come Mario. Suona il citofono, infilo il piumino ed esco. Fa un freddo cane a Milano, la odio anche per questo. Io non sono come loro, il rapporto con la mia terra è di odio-amore, in un’alternanza che porta ben poca coscienza al senso d’appartenenza. Sarà il sangue barbaro, chissà! Non mi faccio più di tante domande. Mario è in macchina che mi aspetta, la temperatura interna dell’auto è quello di una sauna finlandese, anche lui odia il freddo. Gli do un casto bacio e partiamo. E’ un uomo sagace, mi diverte parlare con lui, passiamo un’ora buona a parlare del senso di disperazione con cui si vive oggi, dell’eccessiva consapevolezza della parte oscura che s’inculca ai bambini, del senso oppressivo del dovere, dell’incapacità di vivere con leggerezza, analizzando cause ed effetti. Una conversazione allegra e divertente. Arrivati a Pavia, parcheggia l’auto davanti ad un bel palazzo ottocentesco e citofoniamo ad un interno…il numero 7. In ascensore mi spiega che sono quasi tutti suoi compaesani e che legge solo chi ha già pubblicato qualcosa di buono. Sottinteso per loro. Ci accoglie una ragazza poco più che vent’enne, presentandosi come la padrona di casa. Gli altri ospiti sono tutti radunati in gruppetti, come alle feste del liceo, quando le insicurezze regnavano sovrane e l’unico modo per superarle era mimetizzarsi tra la folla o attaccarsi al primo volto conosciuto. Anche se poi per strada non l’avresti mai salutato! Mario si avvicina ai suoi amici, ideatori e coordinatori del reading. Quello tarchiato, con occhiali spessi e capelli scapigliati, capisco essere la mente, quello carino socievole e sorridente, il cuore e poi il toscano, col codino, dall’aspetto romantico…un toscano? Strano penso…dev’essere un genio! Il reading ha inizio, i lettori, autori vengono presentati dal ragazzo con gli occhiali, mentre il simpatico prepara tela e colori e si organizza per dipingere a terra. Bella trovata. Le letture si susseguono incalzanti, ogni volta interpretate con voce e tono diversi, ma è il loro contenuto che mi sconcerta. Bevo vino, fumo sigarette e mi gratto anche la testa. Mario dall’altra parte della sala mi saluta, io interrompo lo sbadiglio con un mezzo sorriso. Sì mi sto annoiando di nuovo. Frugo nella borsa e trova l’I-pod, meno male! La musica assordante nelle orecchie mi fa superare questo brutto momento, fino a quando non mi scappa la pipì., che corrisponde, per fortuna, ad un piccolo intervallo per gli autori. Mi avvio al bagno, quando mi accorgo che dietro di me si sono piazzati i fantastici tre: il cuore, la mente, il toscano. Mi spingono all’interno e chiudono la porta a chiave. Io non capisco, mi immobilizzano con la forza, mi tirano giù i pantaloni e lo slip, ho paura, urlo, mi tappano la bocca. Il ragazzo con gli occhiali prende dal mobiletto un paio di forbicine e comincia a tagliuzzarmi…i peli del pube! Lo guardo inorridita raccoglierli e infilarli dentro una scatoletta rossa. Il ragazzo carino mi toglie la mano dalla bocca e con un pennarello segna sul coperchio l’acronimo: A.S. Mi lasciano libera, riaprono la porta e mentre stanno uscendo gli domando stupita:
- Perché avete fatto questo…? Loro si guardano, si sorridono e il ragazzo col codino mi risponde…
- Perché volevamo il tuo scalpo!-

martedì 3 febbraio 2009

La donna cannone


La donna cannone


“Così la donna cannone, quell'enorme mistero volò,
sola verso un cielo nero s'incamminò.”

F. De Gregori

Mi chiamo Sara, Sarona per gli amici. Sono una donna grassa, grassissima, ma con un bel viso, almeno così dicono tutti, aggiungendo poi:-peccato però…-. Sottintendono il mio fisico, è chiaro. Loro non capiscono che è come se mi dicessero:- saresti normale se… non ti mancasse una gamba!-.
Sì, perché essere molto grassi è come essere disabili, portatori di handicap, dei diversi. La gente non ti guarda negli occhi, ma osserva curiosa e schifata il tuo enorme culo, le tue braccia dilatate, la circonferenza esagerata dei tuoi fianchi. Mai ti guarda negli occhi, anche se ce l’hai molto belli. Sono il riflesso dell’anima, diceva sempre mia madre. Non guardandomi negli occhi.
Sì anch’io ho un’anima, però nascosta sotto una tonnellata di lardo. Ho iniziato ad ingrassare a vent’anni, per un’inspiegabile malattia del sangue. Dopo circa ventitré anni hanno scoperto la causa: un’eccessiva produzione d’insulina. Questa si riproduce continuamente perché non riconosce gli zuccheri. Almeno così ho capito, ma adesso non me ne frega più niente, dovevano scoprirlo allora.
La mia Via Crucis me la sono già fatta, non è stato facile accettare a vent’anni un cambiamento di peso e di corpo così repentino. Prendevo venti chili l’anno. Nel giro di tre anni sono diventata un’obesa arrivando a pesare centoventi chili. Da lì ho continuato solo ad aumentare. Fu drammatico per me. Non sono più uscita di casa per ben cinque anni. Come facevo? Non potevo sedermi a nessun bar, perché non entravo nelle sedie, non potevo andare al cinema per lo stesso motivo. Anche trovare dei vestiti adatti era difficile. Dovevo servirmi in negozi specializzati per taglie extra large, che non avevano certo capi alla moda, ma solo vecchi camicioni demodé che mi facevano sembrare una vecchia. Che imbarazzo.
Non potevo neanche andare in palestra, perché mi veniva subito l’affanno e poi mi vergognavo, mi guardavano tutti come se fossi un mostro. Anche i miei amici, ex compagni di scuola avevano lo stesso sguardo, solo che loro cercavano di mascherarlo un po’. E’ terribile avere la consapevolezza di essere stata una bella ragazza e improvvisamente risvegliarsi in un’orchessa senza forme. Il mio ragazzo mi lasciò quasi subito. Appena aumentata dei primi dieci chili. Mi disse:- Non capisco cosa ti stia succedendo? Ma mangi di nascosto? Così mica mi piaci…- e si fidanzò con la mia migliore amica.
Non so come sono riuscita a non impazzire. Non credo che siano stati i diciotto anni d’analisi. Quelli mi hanno solo aiutato ad accettare il mio stato razionalmente, ma davanti allo specchio ancora mi metto a piangere. C’ho messo una vita per infondermi un po’ di coraggio. Mi sono pure sottoposta ad un intervento all’intestino, mi hanno inserito un bypass. Non credevo ai medici che dicevano fosse un ingrassamento spontaneo, non alimentare. Potevo credergli invece…mi sarei risparmiata l’intervento.
Dopo molti rifiuti a causa del mio aspetto sgradevole, per fortuna ho trovato un lavoro. Mi hanno assunto come cuoca in una mensa aziendale. Chiusa lì dentro tutto il giorno non davo fastidio a nessuno. –Si vede che ti piace mangiare eh?- mi dicevano e con questa battuta priva di spirito si giustificavano tutti la mia grassezza. Quel lavoro mi distraeva un po’, mi faceva uscire di casa, ma non nutriva il mio spirito paradossalmente anoressico. Quello continuava a dimagrire, a seccarsi come una foglia caduta. Avevo bisogno di un po’ di linfa, altrimenti mi sarei persa per sempre. Mi licenziai.
Mia madre non me lo perdona ancora oggi. – Sei una pazza!- diceva – come fai a credere di trovare un altro lavoro come questo?-. Non aveva tutti i torti, ma io non volevo lavorare, volevo studiare quello che mi piaceva. E così feci. Mi buttai sui libri voracemente e trovai grazie a loro la mia strada. Cominciai ad interessarmi di esoterismo, di yoga, medicina ayurvedica, massaggi shiatsu, bioenergetica, bionutrizione, Reiki e iniziai a frequentare un corso dopo l’altro, prendendo specializzazioni, lauree di ogni tipo. Mia madre sempre dietro:- ma vuoi andare a lavorare? Io mica ti posso mantenere a vita? Ci fosse almeno ancora tuo padre!-.
Scoprii ben presto che oltre al fisico esiste l’anima, ma non quella che mi avevano insegnato a catechismo. Una sfera interiore che si poteva sviluppare, potenziare, tanto da rivelarmi un potere speciale nelle mani. La capacità di trasmettere un calore che dà sollievo. Non è magico, ho solo lavorato su di me, non so se guarisca, ma i pazienti si sentono bene e questo mi basta. Ho scoperto che adesso non mi guardano più il mio grosso sedere, mi guardano negli occhi. Alla sera torno a casa stanca, senza energia, allora mi metto ad osservare il cielo, i pianeti e mi ritrovo in mezzo a tante stelle.
Ma io sono sempre in un cielo diverso…