mercoledì 30 dicembre 2009

"Nuovi territori inesplorati". Presentazione e reading





Alla libreria Piermario di Latina è stata presentata l'antologia della P.A.R.A.D acnonimo di Anna Profumo, Aldo Ardetti, Daniela Rindi, Bruno Di Marco, Una raccolta di racconti pubblicati sul quotidiano "Il Territorio" nell'anno 2009. Con noi l'ospite d'onore: Monsieur Mont Blanc!

sabato 19 dicembre 2009

Presentazione e reading al Simposio del "Bit dell'avvenire" curato da Anonima Scrittori



Il 17 dicembre al Simposio di Roma...




il mio racconto
Tom

Tom – Daniela Rindi

Elisa sfoglia nervosamente il quindicinale degli annunci cercando sotto la voce “Lavoro Offresi”. Da quando si è separata dal marito è diventata un’ossessione, oltre che una necessità primaria. “Cercasi neolaureata”…no, “Cercasi donna sotto i trent’anni”…no.
“Cercasi signora con bella presenza, spigliata, automunita per lavoro di rappresentante in importante multinazionale”…eccolo! Elisa prende in mano il telefono e compone subito il numero.
“Buongiorno, chiamo per quell’annuncio, l’offerta di rappresentante…sì ho l’auto, ma quale sarebbe il prodotto?...un elettrodomestico all’avanguardia?...sì so cucinare, ma non è la mia passione, sa… il tempo non basta mai…ottimo?...ah va bene, se è proprio quello che cercate …ci vediamo domani alle 10…grazie mille…”
Deve fare dimostrazioni porta a porta di un robottino tuttofare e la qualità primaria che bisogna possedere non è una laurea, una specializzazione, un curriculum dignitoso, ma un banalissimo “non saper cucinare”. Niente di più facile per una che riesce a mangiare la pasta al forno di prima mattina pur di non mettere su il caffè, o che riesce a cucinare nel forno anche il fegato.
Due giorni dopo Elisa è già in macchina con il suo bell’apparecchio nel cofano diretta al primo appuntamento. Non ha molta affinità con la toponomastica, si perde facilmente e non ha nessun senso dell’orientamento per cui, visto che la maggior parte dei suoi possibili acquirenti sulla lista ricevuta dalla ditta, vivono nell’hinterland , si è procurata un satellitare, un TomTom. Lo ha scelto per il nome evocativo e simpatico e ha già selezionato una calda voce maschile, che non la fa sentire più sola di quello che è.
La giornata autunnale è piacevolmente tiepida e soleggiata, di buon auspicio. Elisa ha impostato la sua prima via sul TomTom. La sta guidando perfettamente, segnala i punti di rifornimento, gli apparecchi per il controllo della velocità e l’ avverte delle svolte sempre per tempo. Incredibile la precisione. Questi apparecchi sono proprio l’invenzione che fanno per una come lei, che ha sempre e solo avuto come punto di riferimento la strada di casa sua. Gli occhi sul mondo che lei non ha mai avuto. Chissà, se avesse scoperto prima Tom, forse non avrebbe perso un marito dopo 18 anni di matrimonio.
Tom l’ha appena fatta arrivare al casello, paga e la voce della signorina del fast-pay chiede cortesemente di aspettare la ricevuta, poi sempre soavemente ringrazia e augura buon viaggio. “Certo che le sanno scegliere bene queste voci registrate, sembrano esseri umani in carne ed ossa.” Pensa Elisa sorridendo. Riprende il viaggio affidandosi nuovamente alla calda voce di Tom. E, dopo una buona mezz’ora di macchina, Elisa si ritrova nuovamente al casello di prima. La voce del fast-pay, sempre eroticamente gentile, le ricorda ancora la ricevuta e le augura buona prosecuzione.
“Perché sono ancora qui? Com’è possibile? Ci dev’essere qualcosa che non va…”
Elisa indirizza nuovamente il TomTom, forse inavvertitamente ha dato un comando sbagliato e si è impostato per il ritorno al punto di partenza. Elisa riprova e riparte. Dopo un’altra mezz’ora di viaggio l’auto viene riportata allo stesso casello, davanti alla medesima cassa. La voce di Tom che dice: “Destinazione raggiunta.”
“Ma come destinazione raggiunta? Ma se sono di nuovo alla stessa uscita?”
Inutile domandare al fast-pay, è solo una voce programmata, qui non c’è nessun essere umano che ragioni col cervello suo, pure quel tizio dell’Anas fermo laggiù sembra che faccia prendere solo aria alla sua divisa. Elisa scoraggiata decide di rinunciare al suo primo appuntamento e di fare un salto al negozio dove ha acquistato Tom. È ancora in garanzia, quindi l’inserviente può revisionarlo e capire dove Elisa può aver sbagliato. Il ragazzo del negozio, un bel tipo, simpatico e cordiale esamina subito l’apparecchio comunicandole in breve la corretta funzionalità. Anche le impostazioni sono state inserite correttamente, neanche lui capisce cosa può essere successo.
Suggerisce ad Elisa di riprovare con un altro indirizzo e ripartire. Elisa - rinfrancata dalle sue parole - decide di ascoltarlo, in macchina prende un nuovo indirizzo e dà le coordinate a Tom, il quale intercetta subito il satellite e inizia a guidarla con la sua calda e suadente voce. Dopo altri quaranta minuti di viaggio imbocca nuovamente la corsia del solito casello. La voce femminile del fast-pay annuncia il buongiorno, chiede l’importo dovuto, ricorda la ricevuta e saluta nuovamente.
Elisa va su tutte le furie, non è possibile, questa storia sta diventando ridicola! Decide di tornare a casa e di collegare il TomTom al computer. Forse ha solo bisogno di un aggiornamento, può essere che sia impostato su una vecchia mappa stradale che vede l’uscita dalla città solo da quel casello. In fondo le vie cambiano in continuazione e ci sono blocchi per i lavori in corso ovunque. Al computer esegue le operazioni seguendo le istruzioni alla lettera ed effettivamente sembra che Tom avesse bisogno di nuove coordinate.
Il mattino seguente, lasciate a scuola le bambine, riprende la sua marcia in direzione di un nuovo cliente. Tom riprende la conversazione con lei, guidandola per le strade della città, per ora senza nessun problema. Solo all’ultimo momento Elisa si rende conto di essere nuovamente davanti allo stesso casello, con la medesima voce femminile che le dà il buongiorno.
“Non è possibile! Ha fatto tutti i controlli dovuti, gli aggiornamenti necessari, non è pensabile ritrovarsi ancora qui!”
La voce di Tom continua a ripetere: “Destinazione raggiunta.”
“Ma come?” urla Elisa dall’abitacolo della macchina, “torniamo sempre allo stesso punto! Come fai a dirmi che siamo giunti a destinazione? Brutto scemo di un Tom!”
E comincia a tirare pugni sull’apparecchio, furiosamente, strillando, in piena crisi isterica. “Disgraziato! Traditore! Sei peggio del mio ex marito! Tutti uguali voi uomini!”
Elisa piange. Il mondo le sta crollando addosso, la babysitter deve pagarla anche oggi e lei non ha ancora venduto nulla, peggio, non è riuscita nemmeno ad incontrare il suo primo cliente. Si lascia andare ad un pianto liberatorio. Il dolore. Il rancore verso l’uomo che amava. L’uomo che l’ha abbandonata. Non riesce a fermarsi. Non si cura nemmeno della fila di macchine che si è formata dietro di lei, dei clacson che suonano. Elisa non sente più nulla.
“Psss…Elisa…Elisa!”
“Chi è?”
“Sono Tom, il tuo navigatore.”
“Sto impazzendo, sento le voci come Giovanna D’Arco.”
“Non stai impazzendo, io funziono benissimo e tu sei stata bravissima.”
“Allora perché mi hai sempre riportato a questo casello?
“Innanzitutto perché mi sono innamorato.”
“Innamorato? Di chi?”
“Di me,” risponde la voce della cassa fast-pay del casello, “ci scusi signora, non volevamo farla disperare. Tom ed io ci siamo innamorati dal primo momento, dalla prima volta che abbiamo ascoltato le nostre voci.”
“Non potevamo stare lontani,” riprende Tom, “e poi c’era un altro motivo per tornare in questo posto.”
“E quale…”
Elisa non riesce a finire la domanda che l’uomo in divisa dell’Anas bussa al suo finestrino facendola sobbalzare.
“Signora, se ha un problema alla macchina deve comunque spostarsi da qui.”
Elisa tira giù lentamente il finestrino per scusarsi e per tentare di spiegare la situazione, ma quando alza lo sguardo rimane senza parole. Il controllore pure. Nessuno dei due riesce più a parlare, ma solo a fissarsi intensamente negli occhi. Non esiste più nulla attorno a loro. Finché la voce di Tom rompe il silenzio.
“Non volevo rovinarti l’esistenza. Tutt’altro. In bocca al lupo Elisa!”

giovedì 17 dicembre 2009

Il Bit dell'avvenire


Speciale "Il bit dell'avvenire"

Approda in libreria IL BIT DELL'AVVENIRE, volume collettivo curato da Anonima Scrittori che vede la partecipazione, tra gli altri, di Giancarlo Baroni, Antonio Pascale, Lorenzo Pavolini e Antonio Pennacchi.
Il bit dell'avvenire nasce da un'idea di Davide Ferrari, amministratore della Deltaeffe S.r.l., azienda specializzata in Information Technology , e raccoglie i contributi che l'Anonima Scrittori ha raccolto tra le penne che popolano il world wide web.
Autori affermati ed esordienti si sono cimentati nella sfida di raccontare il loro rapporto con la tecnologia. Ricordi del passato e visioni del futuro si alternano a comporre un affresco, vivido e sfumato al tempo stesso, che - come è consuetudine per i progetti dell'Anonima Scrittori - punta a rivalutare il concetto di progresso e a guardare con occhi nuovi a quello che una volta chiamavamo "il sol dell'avvenire".

Venticinque racconti più la 'Rapsodia in Bit', creata attraverso un burroughsiano 'cut up' di tutti i racconti pervenuti. L'antologia è pubblicata per i tipi di Tunué - editori dell'immaginario.

In libreria dal 14 dicembre.
Per informazioni: www.tunue.it , www.anonimascrittori.it , www.ilbitdellavvenire.org , www.deltaeffe.com

Se non trovate IL BIT DELL'AVVENIRE nella vostra libreria di fiducia potete far contattare direttamente il distributore:
CDA - consorzio distributori associati cda.roma@cdanet.it

Ufficio stampa IL BIT DELL'AVVENIRE:
Concetta Pianura
Ufficio stampa Tunué Editori dell'immaginario
Telefono: 0773 661760
Mobile: 339 3786595
c.pianura@gmail.com
Commenti, richieste, dubbi e aggiornamenti come al solito sul forum di Anonima Scrittori: http://www.anonimascrittori.it/forum/topic/il-bit-dellavvenire-sulla-strada

IL BIT DELL'AVVENIRE sulla strada.

Il 15 Dicembre a Urbino, presso il ristorante 'Nettare e Ambrosia', a partire dalle 20.30, Open House organizza la cena letteraria per la presentazione de IL BIT DELL'AVVENIRE. Il menu e i primi piatti sono stati chiamati con i titoli di alcuni dei racconti presenti all'interno dell'antologia.

Il 17 Dicembre a Roma, presso l'artpub 'Il Simposio' (via dei Latini, 11), dalle ore 20.30, reading de IL BIT DELL'AVVENIRE di Anonima Scrittori. Presenti gli autori.

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Ecco l’indice:

Avanti veloce (simile all’oro) di Marco Berrettini
Videotape da Carnate di Nicola Villa
Bit generation di Giorgio Galetto
Il giovane M di Lorenzo Pavolini
Il bozzolo di Stefano Carbini
Il telefonino di Antonio Pennacchi
Il Padrù di Stefano Tevini
Glaucone di Luca Baldini
Love, Sex and I-phone di Camilla Cannarsa
Savile Row (i Beatles nell’avvenire) di Stefano Cardinali
Tom di Daniela Rindi
I sassi, la vera storia dell’uomo che migliorò il mondo di Angelo Orlando Meloni
L’attesa di Antonio Pascale
Parigi, 1896 di Gabriele Santoni
Senza titolo di Vedrana Martinovic
Errore irreversibile di sistema di Silvia Mericone
Dillo alla luna di Fabio Brinchi Giusti
Sex aplomb di Roberto Marinucci
Imperfezioni di Gerardo Rizzo
Blackout di Anna Profumo
Perdere un treno di Andrea Bonvicini
L’uomo interattivo di Vittorio Rainone
L’officina di Zaph&Torque Lanzidei
Chissà, forse riuscirò a toccare i cento di Edoardo Micati
Rapsodia in bit Assemblaggio narrativo a cura di Anonima Scrittori
Appunti di viaggio in Fiandra di Giancarlo Baroni



Nelle migliori librerie.

venerdì 11 dicembre 2009

La bambola di pezza (racconto pubblicato su "Il territorio" 08/12/09. Disegno di Bruno Di Marco


La bambola di pezza

Mi si è formato un bolo di saliva in gola, che ho difficoltà a buttar giù. Ognuno ha un cadavere sul cuore e quello che adesso mi sta tornando in mente percorrendo via Nazionale, è il mio. Mi piacerebbe fosse ancora al mio fianco, fermarci a guardare le vetrine, istigandomi a comprare! Sì, le piaceva quando acquistavo qualcosa per me. Sapeva che era una coccola e me la concedeva, lei. Ma questa è un'altra storia. Odio le scarpe scomode e i tragitti, vorrei essere teletrasportata da un punto all'altro. Non m’interessa quello che c'è nel mezzo. L'alluce del piede sinistro mi batte sulla punta della scarpa, provocandomi una fastidiosa scossa elettrica, chissà perché? La mia camminata sui tacchi è deambulante e sgraziata, potrei dare l'impressione di essere una tossica, per fortuna nessuno si sta interessando a me. Mi fermo in un bar per far riposare i miei piedi, ordino un caffè e un bicchier d'acqua. Prendo la zuccheriera, quella con il beccuccio: uno due, tre, quattro…il barista mi guarda, "sì, mi piace amaro", cinque!

Devo fare pipì, la mia vescica non riesce a trattenere nessun tipo di liquido per non più di un quarto d'ora. E' fastidioso lo so, ma il vantaggio è di non avere le cosce deformate dalla cellulite, che non è poco. Scendo una scala stretta con le pareti rivestite di carta da parati, finto mattone. Il loculo in cui è incastrato il cesso è oscenamente sporco, fortunatamente c'è un enorme rotolone di carta igienica, che uso abbondantemente. Ringrazio e riprendo la mia marcia scomposta. E' già buio e stasera non ho tanta voglia di andare da lui, "amore ho fatto tardi, non riuscirò a prendere il treno delle ventuno e zero sette". Il tono della sua voce è freddo, irritato, come sempre. Mi sento in colpa, mi fa sempre sentire in colpa. E' un diritto che gli ho concesso quando l'ho conosciuto, quando mi sono affidata a lui, illudendomi, ipotecando la mia ritrovata felicità. Ma si è dissolta in un attimo, con la routine. Non ripeterei l'errore, ma è andata così.

Le vetrine sono tappezzate di scritte che t’invitano all'acquisto scontato, mi piacerebbe quella gonna strana, che sembra una coperta. Ma non ho tempo, non posso perdere anche il treno delle ventuno e quarantotto. Un vagabondo si è ritagliato uno spazio per dormire sul marciapiede, fregandosene dei passanti, faccio fatica a non calpestarlo. A suo modo è una persona libera, più libera di tanti altri. Chissà come stanno le bambine? Lasciarle mi fa sempre sentire male, anche se secondo me hanno capito. Se potessero, farebbero lo stesso, sono convinta. A nessuno piace essere maltrattato e vivere nell'angosciosa repentinità dei cambi d'umore di qualcun altro, anche se di un padre, un marito, tra l'altro mai presente. Non si capisce perché gli uomini, in famiglia, si sentano in diritto di far soffrire, con atteggiamenti prepotenti e superbi. Un retaggio di "padre padrone". Un giorno le bambine potranno scegliere di andarsene anche loro, di andare e tornare a piacimento. Non le biasimerò.

Sono arrivata, il tasso di alcolisti concentrato alla stazione Termini è altissimo, a quest'ora vengono fuori come funghi dopo la pioggia. All'interno non c'è molta gente, per lo più balordi e questo m'inquieta, anche se anch'io mi sento una balorda. Nonostante l'aspetto elegante e curato, so di essere marcia dentro. Non so perché faccio questa cosa, ma continuo a farla, ogni volta che mi è possibile. Forse perché una vita vale l'altra. Mi sento come una bambola di pezza. Guardo il tabellone delle partenze, Latina binario tredici. Mi guardo anche gli orari del ritorno, bene, non dovrei avere problemi domani. Ho fame e tiro fuori il cellulare: "Amore tu hai già cenato? Ah, si? …No non importa, non preoccuparti…prenderò qualcosa". Vado a comprarmi dei fetidi panini da Chef-express, mi serve una ragazza di colore dal sorriso rassicurante. E' una perla che mi viene regalata in questa situazione desolata. Mi avvio al binario e mi siedo sulla panca di marmo, dall'alto una perdita goccia, formando una pozza d'acqua per terra. Mi riscappa la pipì.

Più avanti una coppia di ragazzi sporchi si rolla una canna. Mangio i miei panini voracemente, vergognandomi anche un po', una grassa filippina mi sta guardando dall'interno del treno. Mi fumo anche una sigaretta. Salgo, guardo l'orologio, sono un po' in anticipo e decido di leggere qualche pagina. In questi giorni mi sta accompagnando Wallace, che non mi semplifica la vita! Finalmente il treno parte, lasciando lentamente la stazione, come un grosso, pesante e stanco verme di ferro. Guardo fuori, adesso è veramente molto buio, domani tornerò in tempo per prendere le bambine a scuola...come sempre.

venerdì 20 novembre 2009

Un amore piccolo ma grande. Pubblicato su Nuovo Territorio novembre 2009




Un Amore piccolo, ma grande

Un vestitino verde a pois, sandali bianchi, il viso sempre imbronciato... così mi ricordo la bambina dagli occhi verdi e i capelli biondi spettinati, della quale mi innamorai a dieci anni. Lei ferma in mezzo alla piazza, i genitori a pochi metri. Chissà perché era sempre arrabbiata?

Veniva a passare le vacanze in questo piccolo paese sulla riviera pontina, con uno strano nome, molto accattivante, mitologico, dove vivo tuttora. Lei era del nord Italia. I suoi genitori affittavano ogni anno la stessa casa, non lontano dalla mia, per cui riuscivo a controllarla in quasi tutti i suoi spostamenti. Sua madre la portava in spiaggia la mattina presto, seduta sul retro della bicicletta, le gambe ciondoloni, lo sguardo perso nel vuoto e rincasavano a pomeriggio inoltrato.

L’unico momento in cui potevo incontrarla da sola era prima di cena. Lei, normalmente scendeva per strada e cominciava a giocare con i gatti. Gattini randagi, che considerava suoi, come tutti i bambini. Li aveva chiamati Minou, Matisse e Bizet, come gli Aristogatti. Non aveva amici, se anche ogni tanto qualcuno le si avvicinava, attirato dagli animaletti, lei lo demotivava velocemente, raccogliendo infastidita i suoi gattini, spostandosi in un altro posto.

L’unica persona che sembrava tollerare ero io, forse perché per nulla interessato al suo gioco. Il cortile di casa mia era infestato da quei maledetti animali, che pisciavano ovunque lasciando una puzza insopportabile dappertutto, trasformando quel luogo, a mala pena dignitoso, in un ghetto zozzo. Un tardo pomeriggio d'agosto, in una giornata grigia, senza sole, eravamo assieme. Passeggiando arrivammo ad un piccolo ponte, che attraversava un torrente in secca. Ci mettemmo seduti per terra, lei iniziò a provocare, approfittando della mia debolezza. Mi tirava piccoli sassi, allungandosi col collo per catturarmi una smorfia. Cercavo di nascondermi dietro al mio ciuffo rosso, guardando per terra, disegnando distrattamente piccoli cerchi con un bastoncino di legno. Mi imbarazzava sentire accelerare il battito del mio cuore. Ma non si delimita l’amore.

Si alzò di scatto, la seguii con lo sguardo, era altera e bella, i suoi capelli arruffati la coronavano come una principessa. Si appoggiò con i gomiti al muretto, guardò giù e mi disse, "per un mio bacio salteresti giù dal ponte?". Deglutii l'eccesso di saliva e tentennando mi alzai anch'io. La fissai negli occhi, pregandoli di svelarmi la burla, ma non stava giocando, avevano l'aria di sfida. "Solo un salto…". Guardai giù, saranno stati almeno quattro o cinque metri! Tutto il mio piccolo e insicuro mondo interiore era in subbuglio, come potevo deluderla, o mostrare a me stesso di essere un codardo?

E poi un bacio…quante notti avevo passato a sognarlo ad occhi aperti! Quante volte avrei voluto sussurrargli all’orecchio “io ti amo veramente”. Salii sul muretto, lei mi guardò impaurita, ma troppo tardi. Spiccai quel volo senza pensare, facendomi inghiottire dal vuoto, assaporando quegli istanti fatti di nulla. Un Angelo disposto a cadere per amore. Un Angelo stupido.

Quando ripresi i sensi avevo una caviglia fasciata e ancora un dolore atroce. Un capannello di gente non mi lasciava respirare. Con un braccio scansai una vecchia e grassa signora che mi sovrastava, la vidi…lei ferma in mezzo alla piazza, i genitori a pochi metri. Sono passati tanti anni, da quel tardo pomeriggio d’estate. Il bacio non lo ricevetti mai.

Ora sono un adulto, con meno capelli rossi e senza acne, sposato, con tre figli, divenuto Direttore Responsabile del miglior albergo di questa piccola cittadina sul litorale pontino, con uno strano nome, molto accattivante e mitologico. Sono soddisfatto.

Elisa, così si chiamava la bambina dagli occhi verdi e il viso sempre imbronciato, non l’ho più vista. I suoi genitori, a seguito di quell’ increscioso incidente, decisero di cambiare luogo di villeggiatura: la Sardegna. La persi per sempre. Ma la notte ancora mi sveglio per l’inquietudine, a causa di una domanda che mi tormenta nella testa, rimasta senza risposta... Chissà perché era sempre arrabbiata?

giovedì 29 ottobre 2009

Daniela Rindi legge con l'Anonima Scrittori alla fiera "Lib(e)ri sulla carta"






Prima edizione della fiera della piccola editoria indipendente "Lib(e)ri sulla carta" a Poggio Mirteto( 23-24-25- ottobre 2009). Ospiti, tra tanti, L'Anonima Scrittori, che si è esibita in un reading accompagnato dalle musiche dei Low Cost. Un successo! Leggevano i loro racconti Daniela Rindi e Graziano Lanzidei.

giovedì 22 ottobre 2009

La donna cannone- pubblicato su Nuovo Territorio il 20/10/09. Disegno di Bruno Di Marco



Breve racconto di Daniela Rindi per Anonima Scrittori- (r)esistenza 2009-

La donna cannone

“Così la donna cannone, quell'enorme mistero volò,
sola verso un cielo nero s'incamminò.”
F. De Gregori



Venghino signori venghino nel magico mondo del luna park! Divertimento, giochi curiosità vi aspettano! Sollazzi frizzi sfizi di ogni genere per grandi e piccini! Mostri talenti e scherzi della natura saranno a vostra disposizione! Venite tutti nel paese dei balocchi, venite a divertirvi con noi, maestri senza eguali nell’abile arte della finzione! Questa sera un’attrazione speciale…solo per voi e giunta da un paese lontano, forse neanche di questo mondo, da un’altra galassia… l’eccezionale… impressionante… magnifica… immensa… mostruosa…Donna Cannone!

Mi chiamo Natasha, Nasti per gli amici. Sono una donna grassa, grassissima, ma con un bel viso, almeno così dicono tutti, aggiungendo poi:-peccato però…-. Sottintendendo il mio fisico, è chiaro. Ma è come se mi dicessero:- saresti normale se… non ti mancasse una gamba!-.
Loro non capiscono.

Sì, perché essere molto grassi è come essere dei disabili, portatori di handicap, dei diversi. La gente non ti guarda negli occhi, ma osserva curiosa e schifata il tuo enorme culo, le tue braccia dilatate, la circonferenza esagerata dei tuoi fianchi. Mai ti guarda negli occhi, anche se ce l’hai molto belli. Sono il riflesso dell’anima, diceva sempre mia madre.
Non guardandomi negli occhi.

Sì anch’io ho un’anima, però nascosta sotto una tonnellata di lardo. Ho iniziato ad ingrassare a vent’anni, per un’inspiegabile malattia del sangue. Dopo circa ventitré anni hanno scoperto la causa: un’eccessiva produzione d’insulina. Questa si ricrea continuamente perché non riconosce gli zuccheri. Almeno così ho capito, ma adesso non me ne frega più niente.
Dovevano scoprirlo allora.

La mia Via Crucis me la sono già fatta, non è stato facile accettare a vent’anni un cambiamento di peso e di corpo così repentino. Prendevo venti chili l’anno. Nel giro di tre anni sono diventata un’obesa arrivando a pesare centoventi chili. Da lì ho continuato solo ad aumentare.
Fu drammatico per me.

Non sono più uscita di casa per ben cinque anni. Come facevo? Non potevo sedermi a nessun bar, perché non entravo nelle sedie, non potevo andare al cinema per lo stesso motivo. Anche trovare dei vestiti adatti era difficile. Dovevo servirmi in negozi specializzati per taglie extra large, che non avevano certo capi alla moda, ma solo vecchi camicioni demodé che mi facevano sembrare una vecchia.
Che imbarazzo.

I dottori mi dicevano di fare del moto, della corsa, ma come potevo, mi veniva subito l’affanno e poi mi vergognavo, mi guardavano tutti come se fossi un mostro. Anche i miei amici, ex compagni di scuola avevano lo stesso sguardo, solo che loro cercavano di mascherarlo un po’. E’ terribile avere la consapevolezza di essere stata una bella ragazza e improvvisamente risvegliarsi in un’orchessa senza forme, un fenomeno da baraccone. Il mio ragazzo mi lasciò quasi subito. Appena aumentata dei primi dieci chili mi disse:- Non capisco cosa ti stia succedendo? Ma mangi di nascosto? Così mica mi piaci…- .
E si fidanzò con la mia migliore amica.

Non so come sono riuscita a non impazzire. Non credo che siano stati i diciotto anni di autoanalisi. Quelli mi hanno solo aiutato ad accettare il mio stato razionalmente, ma davanti allo specchio ancora mi metto a piangere. C’ho messo una vita per infondermi un po’ di coraggio. Mi sono pure sottoposta ad un intervento all’intestino, mi hanno inserito un bypass. Non credevo ai medici che dicevano fosse un ingrassamento spontaneo, non alimentare. Potevo credergli invece.
Mi sarei risparmiata l’intervento.

Dopo molti rifiuti a causa del mio aspetto sgradevole, per fortuna ho trovato un lavoro. Mi hanno assunto come cuoca in una mensa aziendale. Chiusa lì dentro tutto il giorno non davo fastidio a nessuno. –Si vede che ti piace mangiare eh?- mi dicevano e con questa battuta priva di spirito si giustificavano tutti la mia grassezza. Quel lavoro mi distraeva un po’, mi faceva uscire di casa, ma non nutriva il mio spirito paradossalmente anoressico. Quello continuava a dimagrire, a seccarsi come una foglia caduta. Avevo bisogno di un po’ di linfa, altrimenti mi sarei persa per sempre.
Mi licenziai.

Mia madre non me lo perdona ancora oggi. – Sei una pazza!- diceva – come fai a credere di trovare un altro lavoro come questo?-. Non aveva tutti i torti, ma io non volevo lavorare, volevo studiare quello sì che mi piaceva. E così feci. Mi buttai sui libri voracemente. Cominciai ad interessarmi di esoterismo, di yoga, medicina ayurvedica, massaggi shiatsu, bioenergetica, bionutrizione, Reiki, tutte quelle cazzate lì e iniziai a frequentare un corso dopo l’altro, prendendo specializzazioni, lauree di ogni tipo. Mia madre sempre dietro:- ma vuoi andare a lavorare? Io mica posso mantenerti a vita? Ci fosse almeno ancora tuo padre!-.
Scoprii ben presto che aveva ragione.

Avevo capito che oltre al fisico esiste l’anima, ma non quella che mi avevano insegnato a catechismo. Una sfera interiore che si poteva sviluppare, potenziare, tanto da rivelarmi un potere speciale nelle mani. La capacità di trasmettere un calore che dà sollievo. Non sapevo se fosse anche salutare, ma ci provai lo stesso.
Fu un disastro.

Le clienti dubitavano di una donna tanto grassa, di una che non riusciva a guarire neanche se stessa e persi in breve ogni affidabilità, nonostante le lauree, gli attestati, le specializzazioni. Loro continuavano a vedere una cosa sola.
Il mio grosso culo.

Un giorno andai al luna park e vidi Robert che stava annunciando l’inizio dello spettacolo, la presenza eccezionale dell’”uomo scimmia”. Comprai il biglietto ed entrai dietro il tendone. Quando lui uscii dalla quinta ebbi come una scossa e tutti i pop corn mi caddero per terra. Non potevo credere all’esistenza di un altro mostro.
Peggiore di me.

Una mano mi picchiò sulla spalla, era Robert, mi disse subito che ero bellissima, che non aveva mai visto tanta sana opulenza, che avevo un bel viso, che avrebbe voluto lavorassi per lui. La paga non sarebbe stata un granché, ma avrei potuto condividere la sua roulotte. Tutto questo mi disse in un attimo.
Guardandomi negli occhi.

Alla sera sono stanca, senza energia, ma almeno sono felice. Al termine della giornata, quando si spengono le luci, si smontano le giostre e si rientra nelle proprie roulotte per ripartire, mi fermo un attimo ad osservare il cielo, i pianeti e mi ritrovo in mezzo a tante stelle. Io sono sempre in un cielo diverso.
Ma questo mi basta.

Venghino siori e siore venghino…nel magnifico paese dei balocchi!

martedì 29 settembre 2009

Invia e ricevi pubblicato su Nuovo territorio il 28/09/09 con disegno di Bruno Di Marco



Invia e Ricevi

L’orologio appeso alla parete scarica i suoi secondi. Nella sala d’aspetto non c’è più nessuno. Sulle pareti stampe Impressioniste, probabilmente quelle regalate con l’inserto del quotidiano qualche anno fa. Il portatile aperto sulle ginocchia, in ricezione quarantasette mail. In fondo al corridoio sulla destra una scrivania e una segretaria, in quest’ordine. È attenta a scrivere su una vecchia agenda nera. Il computer, che pure esiste affianco a lei, è spento.

Elisa apre i messaggi di posta: pubblicità, inviti notifiche, eventi, richiesta d’amicizia, quasi tutta roba che arriva da FB. L’anti spamming non è sufficiente ad abbattere questo mostro. Di lui nessuna notizia. I lunghi capelli ricci le scivolano davanti al viso, nello scostarli si bagna la mano. Inizia a scrivere una mail, mentre il ticchettio dell’orologio a muro logora il tempo, oltre che l’anima. Entra una donna che saluta educatamente e si siede nella poltrona di fronte. Avrà una cinquantina d’anni, dieci meno di lei, è ben vestita e troppo truccata. I rossi capelli corti sono schiacciati da un cappellino, che sicuramente fa chic ma è demodé. Contenta lei.

È griffata dalla testa ai piedi, il mocassino Tod’s le fa pensare ad un grande prato all’inglese, a due Labrador, a una piscina rivestita di mosaici, a una cameriera filippina e ad un marito cornuto. Un’ ambientazione degna per quelle scarpe, dove le vede muoversi leggere, evidentemente a loro agio. La signora prende elegantemente una rivista dal tavolino, accavalla le gambe e s’immerge nella lettura non degnandola di altri sguardi. Eppure ne avrebbe bisogno ora.

Sospende la mail e si connette a FB, ci casca sempre. Immagini, un capannone, una casa sul mare, applicazioni, scenografie, tavolate di amici, foto di bambini sorridenti. Sembra che le veda per la prima volta. Tira fuori un fazzoletto dalla borsa e si soffia il naso. Scrive sulla Bacheca: “Non è tutta colpa mia” e Condivide. Controlla nuovamente la posta, ancora nessun messaggio. Prende il cellulare in mano…nulla, scorre su Messaggi Inviati, rilegge mentalmente. Meglio Cancellare, Selezionare tutto e cancellare per sempre.

La signora di fronte alza finalmente lo sguardo su di lei, ma adesso è troppo tardi. Istintivamente fa ricadere i capelli sul viso.
–Scusi se mi permetto…va tutto bene?-. Le parole della donna la fanno sobbalzare, non se l’aspettava.
- Tutto bene grazie…-,
- L’attesa non aiuta…-.
- Già…-, risponde ma una morsa le chiude lo stomaco fino a farle male.
- Io ci sono già passata-. Continua la donna, a questo punto invadente.
- Anche io se per questo, ma ogni volta è diverso-, risponde Elisa stizzita.

Riapre la mail e riprende a scrivere. Le sue dita affondano lente sulla tastiera, quasi pesassero tonnellate. Guarda ancora l’orologio, è solo passata mezz’ora. La segretaria ad un certo punto si alza, attraversa il lungo corridoio ed entra nella sala d’aspetto.
-Chi di voi è Paola. P.?-
Ma come, siamo solo noi due e non ha in mente i nostri nomi? Elisa si sofferma per un attimo sul pensiero dell’efficienza sul lavoro della maggior parte degli assunti a tempo indeterminato. La signora di fronte alza la mano come per rispondere ad un appello.
- Il dottore si scusa, ma non ha ancora ricevuto gli esiti dei suoi esami dal laboratorio e la prega di prendere un altro appuntamento-.
-La signora con i capelli rossi, il suo ridicolo cappellino e la montagna di gioielli si alzano rumorosamente di scatto, afferrano la borsa e se ne vanno frettolosamente borbottando tra i denti frasi incomprensibili. Anche quelli finti.

La segretaria la guarda negli occhi e la segue impassibile. Per Elisa il dottore c’è, è pronto…almeno lui. Controlla ancora una volta la posta, nessun nuovo messaggio. Il cellulare tace. La porta dello studio si apre e appare un dottore in camice bianco, con occhialetti poggiati a metà sul naso, un piccolo binocolo sulla testa e naturalmente tutto abbronzato.
-Signorina S. prego…si può accomodare-.

Elisa rimane impietrita sulla poltroncina con il computer ancora aperto sulle cosce. Fissa il dottore e il dito cala al rallentatore su Invia. Un attimo ed è fatta, una vita sparita, bruciata, cancellata. Chiude il computer e si alza. “Al diavolo! Facciamoci questo Botulino… … almeno sono dieci anni di meno!”.

Reading al Simposio: presentazione antologie "I Vizi Capitali"





Serata al Simposio (via dei Latini-Roma) per la presentazione delle 7 antologie sui vizi capitali, edite dalla Perrone editore (Perrone Lab). Letture degli autori presenti dei racconti pubblicati.

sabato 12 settembre 2009

Arte.r.i.e. a Cantalupo, un reading da "strada"







Daniela Rindi partecipa a Cantalupo alla manifestazione artistica Arte.r.i.e. con Anonima Scrittori. Letture nei vicoli e non solo!
C'era pure la giornata dei piccoli..."il paese dei bambocci" dove Virginia si è divertita perdonandomi le letture della sera prima! Lavinia s'è data...:)

lunedì 24 agosto 2009

Orgoglio


Racconto pubblicato su Nuovo Territorio (24/08/09) con disegno di Bruno Di Marco

ORGOGLIO

"Una nube di fumo, tutti che scappano, non si vede nulla, i lacrimogeni della polizia, la paura, io per mano a mio padre cercando una via d'uscita". Stavano reprimendo una manifestazione all'arena di Milano. Avrò avuto non più di dieci anni. La mia vita inizia lì, appesa a quella mano, il ricordo più chiaro della mia infanzia, appena sbocciata. La memoria successiva slitta alle elementari, alla scuola "Ruffini", famosa per essere affianco al grande affresco di Leonardo "Il Cenacolo”, ma allora non c'erano ancora le file dei giapponesi fino a Corso Magenta. La maestra Gigliola Fusi mi teneva in considerazione, non perché la più brava, ma perché la più bizzarra. Sapevo stupirla. Una volta diede un compito: riempire due facciate del quaderno di "o". Stavo in casa, davanti alla televisione, non ne avevo voglia; mia madre non era certo attenta ai miei compiti, erano altri tempi, i figli erano in mano alle istituzioni, di cui gli adulti si fidavano ciecamente. Non come adesso con i genitori allertati da presunte o reali accuse carnali. Ero poco interessata alle tristi "o" e volevo vedere i cartoni. Mi misi a disegnarle sempre più grosse, fino ad occupare tutta una pagina, quattro "o" in un'unica facciata. Il giorno seguente a scuola subii la prima umiliazione; il mio quaderno fu gettato in aria in mezzo alla classe. Avevo esagerato. Silenziosamente lo raccolsi e mi rimisi al posto. Avevo capito che c'era un limite all'accettazione dei diversi, non dovevano andare troppo sui coglioni! Ne feci tesoro.

Fui promossa in quinta rispondendo a tutte le domande e portando a termine lavori manuali, quale un pallosissimo rosario in creta e un ricamo a punto croce, che ho ancora appesi nella camera della mia infanzia. A pieni voti, riscattandomi, mossa dall'orgoglio. Da lì alle medie fu un salto. I miei genitori avevano la mente aperta, tanto aperta da fidarsi di un esperimento didattico al Conservatorio di Milano. La scuola si sarebbe unita, in via sperimentale, all'Istituto dei Ciechi del Conservatorio e il caro maestro Abbado sarebbe stato a guardare, come uno scienziato crudele. Entrai timidamente, indossando una triste gonna di loden, che mia madre amava tanto. Già il primo giorno mi accorsi della mancanza di regole; fui immediatamente presa in giro, perché vestita troppo bene. Il primo quadrimestre la mia pagella aveva dei bei voti ma un giudizio pessimo sulla mia persona: "La ragazza non è inserita, fatica a socializzare, anche se ha buoni rendimenti". Presi in mano la situazione, alla lettera. Abbandonai i rendimenti e mi dedicai al lavoro di leader. Le lezioni, gestite da me, finirono per essere un gioco a nascondino, e l'ora d'italiano un giro a bottiglia. Le insegnanti si susseguirono, alla ricerca di chi sarebbe riuscito a sottomettermi. Per non parlare dei non vedenti, vittime innocenti, ai quali schiacciavo i puntini del brail per non farli più leggere, finendo con lo spintonarli giù dalle scale. A livello personale fu un successo. In tempo breve fui colei che poteva comandare di infilare un cucchiaio nel culo al secchione della classe. Secondo quadrimestre: "La ragazza ha avuto un calo di rendimento. Il suo inserimento è però completo, mostra chiari segni d'attitudine al comando". Non fu un esperimento riuscito, come scuola, ma il mio orgoglio ne uscì ancora vincitore. Il resto fu un disastro.

Ma fu lì che conobbi Giulio Comello, capelli lunghi biondo platino, costantemente spettinati, jeans a zampa, maglioni larghi; una pippa a scuola, chi di noi non lo era a quell'età, a parte il secchione del cucchiaio. Giulio era bello e dannato; un leader! Ci intendemmo subito, ma era troppo convenzionale accettarsi. Agli occhi degli altri non potevamo amarci, dovevamo essere di tutti, concederci, non eravamo autorizzati ad essere una coppia, era antipolitica, faceva fascista. Ci amavamo facendo finta di niente, soffrendo la mancanza d'intimità. Alle feste dovevamo baciare tutti indistintamente, per non mostrare preferenze, distaccati, per essere superiori, ma soffrivamo da morire osservandoci fare lingua in bocca, con degli sconosciuti. Ogni manata, ogni palpata nell’intimità, una tortura; ogni sorriso, un equivoco. Sapevamo di amarci, ma non era quello il tempo e il luogo. Era figlio di un attore, questo me lo avvicinava ancora di più. Io ero figlia di un impresario teatrale, sempre in tournée e troppo assente per aver voglia, una volta tornato a casa, di mettere la testa nei miei problemi, e di una madre sempre e solo accompagnata da bicchieri di Lambrusco e dischi di Aznavour. Una sera, mentre io e mio fratello eravamo a letto, sentimmo un botto nel bagno. Era caduta sbattendo la testa sul bordo della vasca: aveva le mani insanguinate e lo sguardo stravolto dal dolore. Matteo ed io, la guardammo nascondere la vergogna e la perduta dignità. Ci cacciò via in malo modo. Ancora adesso odio Aznavour.

Giulio fece una festa nella sala prove di suo padre. Tutta la classe partecipò. Giocammo ad uno strano gioco, tipo palla prigioniera. La fila dei maschi al centro doveva catturare una delle tante femmine che tentava di raggiungere la sponda opposta e s'invertiva. Io facevo di tutto per cascare tra le sue braccia, per essere presa, catturata, per godere di un momento d'intimità ammesso, o anche solo mascherato. Lui faceva lo stesso, fino a che una voce gelosa tra gli invitati: "Scusate, ma se Giulio voleva fare una festa solo con Elisa, poteva avvertirci!" E tutto finì. Giulio non avrebbe rinunciato mai al suo ruolo di leader, e poco dopo mi lasciò. Fu difficilissimo per me, incassare il colpo. Tutte le mattine lo vedevo in classe flirtare con le altre, indifferente al mio cuore attorcigliato. Un giorno, però, intuii la verità. Mentre eravamo in cerchio a cantare tutti insieme una canzone di Battisti, "La canzone del sole", incrociai il suo sguardo; aveva continuato ad osservarmi da lontano, era ancora innamorato! Approfittai subito della situazione e come la perfida Medusa lo marmorizzai, fidanzandomi col suo migliore amico, Nicola. Mi trasformai nella perfetta innamorata, sempre attaccata a lui, ostentando baci scandalosi e attenzioni da geisha, esibendomi in provocazioni di ogni genere, un metodo efficace per guarire il mio orgoglio ferito. Giulio non venne più a scuola. In questo modo, forse, mi stava mostrando la sua indifferenza. Mi sentii una stupida, come avevo potuto sperare di riconquistare uno come lui con dei giochetti da bambina! Lo avevo perso.

La mia vita cambiò, avevo dei solchi profondi nell'anima, come i miei sensi di colpa. Mi diedi alla politica, come può fare una quattordicenne, con la convinzione scaturita più dall'appartenenza ad un gruppo, che personale. Erano gli anni di piombo, Milano era una pentola a pressione. Bastava un niente per farla esplodere. Avevano appena ammazzato Fausto e Iaio. Andai a quella grossa manifestazione, motivata dalla rabbia, dallo sdegno, dal disprezzo. Tanta gente, tanto fumo, tanta polizia che librava nell'aria i manganelli come fossero birilli da circo. Io che scappavo cercando di mettermi in salvo. Fu lì che vidi tendermi una mano, era Giulio, bellissimo, con un fazzoletto sulla faccia, brandiva un grosso bastone di legno. Mi guardò negli occhi, mi afferrò forte e iniziò a correre, facendosi largo a bastonate. Il cuore mi batteva impazzito. Riuscimmo a superare le camionette infernali, dove a caso venivano rinchiusi i nostri compagni e ammazzati di botte. Continuavamo a correre, via da lì, senza più fiato, per poterci ritrovare, abbracciare, finalmente amare davanti a tutti. Un sibilo, non so da dove, mi passo sopra l'orecchio, improvvisamente il silenzio intorno, mi immobilizzai, il corpo di Giulio che si accasciava al rallentatore. Io che continuavo a stringerlo. La mia vita finiva lì, appesa a quella mano, il ricordo più chiaro della mia adolescenza, per sempre spezzata.

Daniela Rindi

mercoledì 8 luglio 2009

Consapevolmente disabile


Breve racconto di Daniela Rindi con disegno di Bruno Di Marco uscito su Nuovo Territorio il 06/07/09

Consapevolmente disabile

“Esistere è una inclinazione che non dispero di fare mia”, eppure tutto è iniziato da questa frase. Un libro, E.M.Cioran, ha stravolto la mia vita. Avevo compiuto da poco il mio sessantatreesimo compleanno, quando mi ritrovai seduto sul letto di quella camera d’ospedale, al primo piano di un’importante clinica milanese. Le gambe ciondoloni, lo sguardo fisso sul dottore, come sempre abbronzato, che mi stava consigliando di trasferire mia moglie a casa.

Non aveva più speranza, il tumore al peritoneo era arrivato ai polmoni. Un’equipe medica, a pagamento, avrebbe seguito la malata terminale presso l’abitazione, fino all’ultimo respiro. Trangugia il filo di saliva che mi era rimasto in bocca e scoppiai a piangere. In quel pianto liberatorio c’era il dolore di un mese di veglia, passata accanto al letto, tra l’incredulità, la speranza e l’assurdo. C’era la rabbia contro un Dio cui non avevo mai creduto e continuavo a non credere. Il mio rapporto di odio con lui mi rendeva l’ateo più credente al mondo. C’erano i miei figli, i miei nipoti, ai quali era tolta una parte di vita e c’era il mio cuore. Dilaniato. A me era tolto tutto.

Ero appena andato in pensione e avevo iniziato a fare programmi con lei, finalmente potevamo dedicarci a noi, alla nostra vecchiaia, al nostro tempo insieme. I soldi messi coscienziosamente da parte, grazie all’ostinata presenza di mia moglie sull’argomento…si preoccupava lei, del nostro futuro, voleva trascorrerlo tranquilla…mi aveva messo nella condizione di prenotare dei viaggi. Per primo voleva andare a Ischia, poi vedere l’America…Come tutto questo si rivela oggi amaramente inutile. Come non vorrei avere avuto ragione, mai come oggi. Lei, così ingenua, così meravigliosamente terrena, mi rendo conto solo adesso della sua grandezza.
Un mese di malattia, dove ti aggrappi a qualsiasi illusione, un mese di vita. Lei con il sorriso, finché ha potuto permetterselo, con la forza di tranquillizzare la mia disperazione. Entrammo insieme, ma uscii da quell’ospedale da solo, con una piccola valigia in mano, tutto quello che mi rimaneva di lei. Non avevo pensieri particolari, anzi non avevo pensieri. Tutto era passato su di me in un lampo, una vita era finita, la mia. Avevo amato, goduto, sofferto, gioito, ma quel giorno si era portato via tutto.
Un pensiero in realtà c’era, che si agitava nervosamente nella testa…cosa avrei scritto sulla lapide. Non si è mai preparati al peggio. Ho sempre odiato i cimiteri, le onoranze funebri, le tombe innalzate al ricordo di chi non c’è più e adesso mi ritrovavo a farne i conti. Come si può scrivere la fine di una vita in poche righe? Andai indietro con la memoria, cercando di ricordare le piccole cose, fino a quando approdai ad un bracciale d’argento che gli avevo regalato al ritorno da una tournée. Sopra c’erano scritti alcuni versi di una poesia di Bertold Brecht:
Un dì nel mese azzurro di settembre
quieto all'ombra d'un giovane susino
tenevo il quieto e pallido amore mio
fra le mie braccia come un dolce sogno…

Non andai subito a casa, non avevo fretta, non c’era più nessuno ad aspettarmi preoccupato. Piansi nuovamente. Il senso di vuoto che avevo nel cuore mi annientava. Come potevo sopravvivere senza di lei, senza la sua voce, la sua testa, il suo corpo? La vita è veramente tutta qui? Un’illusione di felicità che si dissolve nella morte? Mi ritrovai a passeggiare per Brera, attorno tante bancarelle, si… l’antiquariato le piaceva tanto, rovistare tra le vecchie cose alla ricerca della pietra filosofale…Schernita da me ogni volta, infastidito, come mi sembrava importante quella mattina, fatta di nulla!

Mi avvicinai alla bancarella dei libri usati e iniziai a leggere titoli a caso. Tra le mani mi capitò “La tentazione di esistere”, lessi l’incipit:- Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all’esacerbarsi del nostro squilibrio. Persino Dio, per quanto si incuriosisca, non lo scorgiamo nell’intimo di noi stessi, bensì al limite esterno della nostra febbre, esattamente nel punto in cui, la nostra rabbia fronteggiando la sua, ne risulta una collisione, uno scontro rovinoso per Lui non meno che per noi. - Quel libro, a distanza di anni è ancora sul mio comodino, per me è lei, rappresenta la mia esistenza. Non l’ho mai letto.

martedì 7 luglio 2009

dimenticavo...Il Maggio Sermonetano!





Reading dell'Anonima Scrittori per le strade di Sermoneta, all'interno della manifestazione Il Maggio Sermonetano 2009. Leggevano Euriloca, Zaphod, Bdm (alias Dirtydancing) e naturalmente Rindindin!

martedì 30 giugno 2009

Gde Maya Lubimaya (dall'antologia -Musica per orologi molli- di A. De Santis)


Ringrazio Juba e Iana, senza la loro amicizia non avrei potuto scrivere questo racconto..
"Gde Maya Lubimaya" di Mikael Tariverdiev
dal film russo "Ironia Sudby" ("Irony of Fate")




Gde Maya Lubimaya
Dov'è l'amore mio
(di Mikael Tariverdiev)



Mi chiamo Juba, ho già cinquantadue anni, un marito, due figli e tre nipoti. Una vita passata in un paese a nord di Irkutsk, in Siberia. Una vita a fare l'insegnante di una piccola scuola elementare di provincia, che si poteva permettere il riscaldamento solo a giorni alterni.
I bambini, con quelle sciarpe, cappelli buffi calzati fino agli occhi, le pelli diafane, i corpi magri, con quell'energia senza riserve, riempivano la mia esistenza. Trent'anni di insegnamento, senza nessuna interruzione, neanche per stare male. Lavoravo spesso sulle fiabe: metafore, vita, immagini fantastiche che insegnano a sperare. Un giorno se ne sarebbero andati da lì, avrebbero realizzato i loro sogni, avrebbero avuto una possibilità. Ogni mattina rinnovavo questa preghiera con la mia presenza. Sono discorsi già sentiti, lo so; la miseria dovrebbe commentarsi da sola. E invece bisogna riflettere. Quella maledetta idea di un mondo migliore, mi sta uccidendo.
Guadagnavo l’equivalente di ottanta euro al mese; niente, se si considera che il costo del pane è più o meno uguale al vostro. Non c'è nessun rapporto umanamente comprensibile tra salario e costo della vita. Un lavoro ben pagato, era considerato quello di mio marito, impiegato in una fabbrica di ceramica, duecento euro al mese. L'affitto costava il doppio. La mia datrice di lavoro attuale, mi domanda incredula "Ma come è possibile, è un'assurdità… Come si fa a vivere con così poco?". Infatti non si vive, si muore di fame, si parte, cercando di ricominciare. Ma ricominciare cosa, a cinquantadue anni, con una vita già spesa e tutti i ricordi ben piantati nella testa?
E' bello il mio paese, di una bellezza sconfinata, come le sue distese di ghiaccio, silenziose e raffinate. Tutto diventa elegante ricoperto dalla neve. Nasconde il reale, ti lascia vedere solo un immenso mondo bianco: è la visione ovattata della vita. Come nelle favole. Ma la Siberia non è solo questo. Ci sono bellissime chiese ortodosse, paesaggi struggenti, come il Lago Baikal, dove montagne imponenti si specchiano su una lastra gelata. E poi abbiamo l'aringa, tanta aringa con patate.
Del lavoro di mio marito mi sono rimasti alcuni piatti e il disgusto di bere il caffè nel bicchiere di vetro. La fabbrica dove lavorava è stata chiusa e ricomprata dai cinesi, per farne non so bene che cosa. Le ceramiche sono andate in frantumi. "Perché è successo questo?", mi domanda ancora più ingenuamente la mia datrice di lavoro. Bah… La cattiva politica, un governo che ha speculato sulla povera gente. Non riesco a dire molto di più del destino del mio paese. Io sono una del popolo, mi son fidata, mi sono fatta manovrare e adesso ne pago le conseguenze. Tutto qui. "Un governo così andava abbattuto?" Ci abbiamo provato. Il governo nuovo, quello del liberismo, ha fatto peggio. Nessuno se l'aspettava. Ora tutti vanno via dal mio paese, malvolentieri, costretti dalla miseria. Noi tutti amiamo la nostra terra, anche se fa molto freddo; è ancora desolata, melodiosa e struggente. Se ci fosse stata la possibilità di rimanere, saremmo restati e l’avremmo salvata. Io forse non la rivedrò più. Del mio lavoro mi è rimasto il ricordo del sorriso dei bambini, che mi fa piangere la notte. E sono fortunata, mi continuo a ripetere. Ho trovato un lavoro alla mia età! Questo mi permette di aiutare i miei figli, di fargli mangiare la carne, di vestire e mandare a scuola i miei nipoti.
Io e mio marito oggi viviamo in Italia, un paesino del Lazio, una vecchia cantina ristrutturata, di quelle dove si faceva il vino, senza luce. Abbiamo dovuto comprare un gruppo elettrogeno, perché il padrone di casa non pagava la corrente. Ho un gatto e non per amore, ma per mangiarsi i topi. La cantina è riscaldata da una stufa a gas. Quando leggo sul giornale al bar di qualcuno morto asfissiato, giro subito pagina e leggo la prima notizia che mi capita. Puzza da fare schifo. Però, è vero, sono fortunata. Paghiamo solo cinquanta euro al mese, io ne guadagno cento a settimana, mio marito un po' di più, perché lavora a ore in una carrozzeria; ci si può stare. Però non è vita, la mia. Sto lavorando per guadagnare dei soldi che neanche posso godermi, vivo come una zingara, faccio un mestiere diverso da quello per cui ho studiato e vissuto.
Ma non è tanto questo che mi fa male, è l'orgoglio. Ho dei solchi profondi nell'anima. Non so più nemmeno chi sono. Mi giudico con gli occhi di chi mi osserva: una russa disperata, che capisce male l'italiano, disposta a tutto per soldi. Solo per questo ringrazio di non avere più vent'anni. Sono poche le mie connazionali che han fatto fortuna; spesso sono proprio russi come noi a fregarle. E’ sempre la miseria che guida la mano. E' umiliante.
Non ho amici, i pochi russi che conosco sono da tenere alla larga, non ci si aiuta, se non per sopravvivere. Per la sistemazione iniziale, c'è una specie di comitato d'accoglienza segreto. Non abbiamo i documenti e non possiamo firmare nessun contratto d'affitto. Casa in nero, lavoro nero e umore nero. C'è gelosia tra di noi, anche se fingiamo di essere una grande famiglia. Ognuno difende la sua pozzanghera d’acqua sporca, occupata con fatica. Normale, ma pure difficile, almeno per me. Non considero che l’essere in miseria comporti l’essere miserabile. Sono una donna onesta. Dover cambiare a forza i propri atteggiamenti. Disconoscere la propria origine, rendersi simili agli italiani, modificare al più presto modo di vestirsi, di mangiare, le amicizie; tutto solo per sentirsi accettati. Io non sono così, non vorrei rassegnarmi.
Avevo una vita prima, adesso non mi basta più neanche rivolgermi a Dio. Si, sono cattolica; in un paese che non ha niente, è giusto credere in qualcuno che abbia il potere di renderti giustizia, un giorno!. Però non mi aiuta, neanche Lui sa più chi sono. Mi manca la famiglia. E' difficile alzarsi alla mattina in un luogo sconosciuto ed astioso. Ancora peggio, avere la certezza di ritornarci la sera, per il resto della vita; la coscienza che nulla potrà modificarsi perché non deve.
E' un meccanismo infernale: io guadagno, continuo a vivere con i miei ottanta euro al mese. Il resto deve tornare alla casa-madre. Si, lo faccio per loro, d’accordo, ma io, per me, sono già morta. Peso quarantacinque chili e sono ancora alta un metro e sessantacinque. Ho eliminato lo spreco anche nel cibo, ma non perché non possa permettermelo. E' un atto volontario, un gesto purificatore. Io creo il vuoto per sparire. Mio marito fa il contrario: mangia di tutto, anche il mio. Lui riempie il suo vuoto. Per un uomo penso che sia più difficile, per questo non ne parliamo mai. Lui fa e basta, non discute, comunque per lui è un'altra possibilità. Lui è più forte, e anche se mangia, leggo nei suoi occhi l'amarezza. E' seduto di fronte, dorme. Io non ci riesco più. Tra di noi esiste un mutismo che sa di rassegnazione e che si è pure ingoiato il nostro amore.
Le poche feste di Natale ci sono servite per portare a casa ciò che ancora non abbiamo: il vostro inutile. Adesso torniamo in Italia. Vedo scorrere le immagini della mia terra dal finestrino del treno, dalla mitica transiberiana. Vado nel paese delle meraviglie senza essere Alice. Vado a fare le pulizie.

martedì 9 giugno 2009

L'Accidia! Pubblicata da Perrone Editore


Accidia


Tu stai lì e aspetti
la vita scivola lentamente
come miele d’acacia.

Stai lì e aspetti
qualcosa verrà
senza spigoli, senza angoli.

Non chiedi nulla
non dai
non pensi.

Il brivido non si compra
anche questo ha un prezzo
inutile pensiero.

Tutto gira
senza timone, senza freni
senza pericoli apparenti.

Tu stai lì e aspetti
un cane, un treno, un pensiero
un silenzio che verrà…

lunedì 1 giugno 2009

L'Ira


Un mio nuovo racconto per la Perrone Lab "Ira". Continua la saga dei vizi capitali!

sabato 9 maggio 2009

domenica 26 aprile 2009

Il mio reading con Anonima Scrittori a Bergamo






Breve racconto di Daniela Rindi per Anonima Scrittori (Resistenza 2009)
La donna cannone

Venghino signori venghino nel magico mondo del luna park! Divertimento, giochi curiosità vi aspettano! Sollazzi frizzi sfizi di ogni genere per grandi e piccini! Mostri talenti e scherzi della natura saranno a vostra disposizione! Venite tutti nel paese dei balocchi, venite a divertirvi con noi, maestri senza eguali nell’abile arte della finzione! Questa sera un’attrazione speciale…solo per voi e giunta da un paese lontano, forse neanche di questo mondo, da un’altra galassia… l’eccezionale… impressionante… magnifica… immensa… mostruosa…Donna Cannone!

Mi chiamo Natasha, Nasti per gli amici. Sono una donna grassa, grassissima, ma con un bel viso, almeno così dicono tutti, aggiungendo poi:-peccato però…-. Sottintendendo il mio fisico, è chiaro. Ma è come se mi dicessero:- saresti normale se… non ti mancasse una gamba!-.
Loro non capiscono.

Sì, perché essere molto grassi è come essere dei disabili, portatori di handicap, dei diversi. La gente non ti guarda negli occhi, ma osserva curiosa e schifata il tuo enorme culo, le tue braccia dilatate, la circonferenza esagerata dei tuoi fianchi. Mai ti guarda negli occhi, anche se ce l’hai molto belli. Sono il riflesso dell’anima, diceva sempre mia madre.
Non guardandomi negli occhi.

Sì anch’io ho un’anima, però nascosta sotto una tonnellata di lardo. Ho iniziato ad ingrassare a vent’anni, per un’inspiegabile malattia del sangue. Dopo circa ventitré anni hanno scoperto la causa: un’eccessiva produzione d’insulina. Questa si ricrea continuamente perché non riconosce gli zuccheri. Almeno così ho capito, ma adesso non me ne frega più niente.
Dovevano scoprirlo allora.

La mia Via Crucis me la sono già fatta, non è stato facile accettare a vent’anni un cambiamento di peso e di corpo così repentino. Prendevo venti chili l’anno. Nel giro di tre anni sono diventata un’obesa arrivando a pesare centoventi chili. Da lì ho continuato solo ad aumentare.
Fu drammatico per me.

Non sono più uscita di casa per ben cinque anni. Come facevo? Non potevo sedermi a nessun bar, perché non entravo nelle sedie, non potevo andare al cinema per lo stesso motivo. Anche trovare dei vestiti adatti era difficile. Dovevo servirmi in negozi specializzati per taglie extra large, che non avevano certo capi alla moda, ma solo vecchi camicioni demodé che mi facevano sembrare una vecchia.
Che imbarazzo.

I dottori mi dicevano di fare del moto, della corsa, ma come potevo, mi veniva subito l’affanno e poi mi vergognavo, mi guardavano tutti come se fossi un mostro. Anche i miei amici, ex compagni di scuola avevano lo stesso sguardo, solo che loro cercavano di mascherarlo un po’. E’ terribile avere la consapevolezza di essere stata una bella ragazza e improvvisamente risvegliarsi in un’orchessa senza forme, un fenomeno da baraccone. Il mio ragazzo mi lasciò quasi subito. Appena aumentata dei primi dieci chili mi disse:- Non capisco cosa ti stia succedendo? Ma mangi di nascosto? Così mica mi piaci…- .
E si fidanzò con la mia migliore amica.

Non so come sono riuscita a non impazzire. Non credo che siano stati i diciotto anni di autoanalisi. Quelli mi hanno solo aiutato ad accettare il mio stato razionalmente, ma davanti allo specchio ancora mi metto a piangere. C’ho messo una vita per infondermi un po’ di coraggio. Mi sono pure sottoposta ad un intervento all’intestino, mi hanno inserito un bypass. Non credevo ai medici che dicevano fosse un ingrassamento spontaneo, non alimentare. Potevo credergli invece.
Mi sarei risparmiata l’intervento.

Dopo molti rifiuti a causa del mio aspetto sgradevole, per fortuna ho trovato un lavoro. Mi hanno assunto come cuoca in una mensa aziendale. Chiusa lì dentro tutto il giorno non davo fastidio a nessuno. –Si vede che ti piace mangiare eh?- mi dicevano e con questa battuta priva di spirito si giustificavano tutti la mia grassezza. Quel lavoro mi distraeva un po’, mi faceva uscire di casa, ma non nutriva il mio spirito paradossalmente anoressico. Quello continuava a dimagrire, a seccarsi come una foglia caduta. Avevo bisogno di un po’ di linfa, altrimenti mi sarei persa per sempre.
Mi licenziai.

Mia madre non me lo perdona ancora oggi. – Sei una pazza!- diceva – come fai a credere di trovare un altro lavoro come questo?-. Non aveva tutti i torti, ma io non volevo lavorare, volevo studiare quello sì che mi piaceva. E così feci. Mi buttai sui libri voracemente. Cominciai ad interessarmi di esoterismo, di yoga, medicina ayurvedica, massaggi shiatsu, bioenergetica, bionutrizione, Reiki, tutte quelle cazzate lì e iniziai a frequentare un corso dopo l’altro, prendendo specializzazioni, lauree di ogni tipo. Mia madre sempre dietro:- ma vuoi andare a lavorare? Io mica posso mantenerti a vita? Ci fosse almeno ancora tuo padre!-.
Scoprii ben presto che aveva ragione.

Avevo capito che oltre al fisico esiste l’anima, ma non quella che mi avevano insegnato a catechismo. Una sfera interiore che si poteva sviluppare, potenziare, tanto da rivelarmi un potere speciale nelle mani. La capacità di trasmettere un calore che dà sollievo. Non sapevo se fosse anche salutare, ma ci provai lo stesso.
Fu un disastro.

Le clienti dubitavano di una donna tanto grassa, di una che non riusciva a guarire neanche se stessa e persi in breve ogni affidabilità, nonostante le lauree, gli attestati, le specializzazioni. Loro continuavano a vedere una cosa sola.
Il mio grosso culo.

Un giorno andai al luna park e vidi Robert che stava annunciando l’inizio dello spettacolo, la presenza eccezionale dell’”uomo scimmia”. Comprai il biglietto ed entrai dietro il tendone. Quando lui uscii dalla quinta ebbi come una scossa e tutti i pop corn mi caddero per terra. Non potevo credere all’esistenza di un altro mostro.
Peggiore di me.

Una mano mi picchiò sulla spalla, era Robert, mi disse subito che ero bellissima, che non aveva mai visto tanta sana opulenza, che avevo un bel viso, che avrebbe voluto lavorassi per lui. La paga non sarebbe stata un granché, ma avrei potuto condividere la sua roulotte. Tutto questo mi disse in un attimo.
Guardandomi negli occhi.

Alla sera sono stanca, senza energia, ma almeno sono felice. Al termine della giornata, quando si spengono le luci, si smontano le giostre e si rientra nelle proprie roulotte per ripartire, mi fermo un attimo ad osservare il cielo, i pianeti e mi ritrovo in mezzo a tante stelle. Io sono sempre in un cielo diverso.
Ma questo mi basta.

Venghino siori e siore venghino…nel magnifico paese dei balocchi!

P.P. di P. pubblicato da BooksBrothers


P.P.di P.,
di Daniela Rindi

Quando scherzare con la sacralità e la ritualità di un certo mondo intellettuale può condurre a spiacevoli e inaspettate conseguenze. Una cartolina surreale e divertente sul mondo di alcuni, spesso autoreferenziati, collettivi letterari (R. Ferrante)

P.P. di P.
(Peli del Pube di Pavia)
di Daniela Rindi


E’ un grigio e molto milanese pomeriggio d’inverno. Mi sto annoiando a casa, tentando telepaticamente di trasformare un foglio bianco in qualcosa di leggibile. Anche a Milano ci si può annoiare se ci si mette d’impegno. Squilla il telefono. E’ Mario che mi invita a casa di un amico dove si svolgerà un reading, che altro non è che una lettura ad alta voce di un testo, a Pavia. Accetto e aspetto che passi a prendermi. Pavia è una cittadina deliziosa abitata principalmente da studenti universitari. Camminando per il centro si ha l’impressione di vivere in un campus.

Mario è un mio caro amico meridionale. Anche lui scrive e lo fa con genialità e fantasia. Lo considero uno sperimentatore, un pioniere della scrittura, anche se a volte non ci capisco proprio niente. Però sono i suoni delle sue frasi che mi prendono, l’armonia delle parole, anche se incomprensibili. Uno stile completamente diverso dal mio, quindi ammirevole. Facciamo parte di un’associazione di scrittori, quasi anonima, perché siamo tutti dilettanti, che si deliziano in racconti e in esperimenti di scrittura collettiva. Ognuno ha le sue paranoie!

I suoi genitori si trasferirono a Milano tanti anni fa per i soliti motivi economico-lavorativi e non sono mai più tornati a casa. Mario però si sente molto legato alla sua terra, visceralmente, come tutti gli uomini del sud. Se la sentono dentro, hanno un grande senso di appartenenza, si aiutano, si spalleggiano, fanno clan. E’ difficile entrare a far parte del loro giro, ammettono qualcun altro solo dopo un’attenta selezione. Poi però ti danno anima e cuore, proprio come Mario.

Suona il citofono, infilo il piumino ed esco. Fa un freddo cane a Milano, la odio anche per questo. Io non sono come loro, il rapporto con la mia terra è di odio-amore, in un’alternanza che porta ben poca coscienza al senso d’appartenenza. Sarà il sangue barbaro, chissà. Non mi faccio più di tante domande. Mario è in macchina che mi aspetta, la temperatura interna dell’auto è quello di una sauna finlandese, anche lui odia il freddo. Gli do un casto bacio e partiamo.

E’ un uomo sagace, mi diverte parlare con lui, passiamo un’ora buona a parlare del senso di disperazione con cui si vive oggi, dell’eccessiva consapevolezza della parte oscura che s’inculca ai bambini, del senso oppressivo del dovere, dell’incapacità di vivere con leggerezza, analizzando cause ed effetti. Una conversazione allegra e divertente. Arrivati a Pavia, parcheggia l’auto davanti ad un bel palazzo ottocentesco e citofoniamo ad un interno…il numero 33. “Trentatre trentini….” questa filastrocca comincia a martellarmi nella mente.

In ascensore mi spiega che sono quasi tutti suoi compaesani e che legge solo chi ha già pubblicato qualcosa di buono. Sottinteso per loro. Ci accoglie una ragazza poco più che ventenne, presentandosi come la padrona di casa. Gli altri ospiti sono tutti radunati in gruppetti, come alle feste del liceo, quando le insicurezze regnavano sovrane e l’unico modo per superarle era mimetizzarsi tra la folla o attaccarsi al primo volto conosciuto. Anche se poi per strada non l’avresti mai salutato. Mario si avvicina ai suoi amici, ideatori e coordinatori del reading.

Quello molto grasso, con le mutande di fuori e jeans oversize, capisco essere la mente, quello carino dalla pelle diafana e implume, il cuore e poi il toscano, con i capelli lunghi neri, dall’aspetto rivoluzionario, sembra il Che…un toscano? Strano penso…dev’essere un genio! Il reading ha inizio, i lettori, autori vengono presentati dal ragazzo obeso, mentre il biondino prepara tela e colori e si organizza per dipingere a terra. Bella trovata. Le letture si susseguono incalzanti, ogni volta interpretate con voce e tono diversi, ma è proprio l’esibizione che mi sconcerta.

Il primo autore ha uno strano tic, a termine di ogni frase, ha come un rumoroso risucchio faringoesofageo che mette l’ansia. Il secondo, invece di leggere compitamente, delira, urlando le parole a decibel intollerabili, data l’ora, dandosi ogni tanto anche una grattatina. Bevo vino, fumo sigarette e mi grattugio la testa istintivamente. Il terzo lettore è una donna, questo particolare desta in me attenzione. La sua voce soave mi trasporta nella lettura, è delicata, dolce…troppo dolce…lenta…troppo lenta…monocorde…troppo…ho un colpo di sonno.

Mario dall’altra parte della sala mi saluta con un fischio, io mi sveglio di soprassalto, interrompendo lo sbadiglio con un mezzo sorriso. A questo punto decido di passare al piano B, frugo nella borsa e trovo l’I-pod, meno male! La musica assordante nelle orecchie mi fa superare questo brutto momento, fino a quando non mi scappa la pipì, che corrisponde, per fortuna, ad un piccolo intervallo per gli autori.

Mi avvio al bagno, quando mi accorgo che dietro di me si sono piazzati i fantastici tre: il cuore, la mente, il toscano. Mi spingono all’interno e chiudono la porta a chiave. Io non capisco, mi immobilizzano con la forza, mi tirano giù i pantaloni e lo slip, ho paura, urlo, mi tappano la bocca. Il ragazzo grasso prende dal mobiletto un paio di forbicine e comincia a tagliuzzarmi…i peli del pube! Lo guardo inorridita raccoglierli e infilarli dentro una scatoletta rossa. Il ragazzo carino mi toglie la mano dalla bocca e con un pennarello segna sul coperchio la cifra: 33. Mi lasciano libera, riaprono la porta e mentre stanno uscendo gli domando stupita:
- Perché avete fatto questo…? Loro si guardano, si sorridono e il Che mi risponde…
- Perché volevamo il tuo scalpo!-
Nella mia testa ritorna la nenia “…entrarono in Trento tutti e trentatre trotterellando!”.
25/04/2009

sabato 11 aprile 2009

Una giornata qualunque (tratto da "Lussuria")


Una giornata qualunque


“ Sembra che tu stai pensando a tantissime cose, ma non sai da dove cominciare…”.
(Virginia 7 anni).

E’un bellissimo pomeriggio d’inverno, il sole è tiepido e irradia gioia. Come quella che Elisa ha nel suo cuore. Non c’è un motivo particolare. E’ una di quelle magiche giornate dove tutto è perfettamente allineato e quindi armonico. Dall’addome parte una strana energia che s’irradia in tutto il corpo e s’allunga all’esterno. Forse è questo che chiamano Aurea. Decide di farsi una passeggiata per il centro, sotto i portici e guardare le vetrine, un’attività che si concede raramente, dato i suoi impegni. Poi a dirla tutta, non è neanche che le piaccia particolarmente, poiché detesta camminare senza una meta precisa. Mentre le scorrono affianco le vetrine, viene attratta da uno strano allestimento fatto tutto di cioccolata….un intero paese montano costruito con cioccolata bianca, nera, al latte. Fantastico! Decide d’entrare nella pasticceria, anche per premiare lo sforzo scenografico, ingegnoso e impegnativo. Il negozio è enorme e pieno di scaffali, ognuno carico di ogni tipo di dolciumi, di cioccolatini, caramelle, zuccherini…le sembra la casa di Hansel e Gretel. Prende un cestello e comincia a far la spesa. Non sa resistere, anche se i dolci non sono mai stati la sua passione. Mentre vaga da uno scaffale all’altro, gettando nel carrello ogni sorta di scatole colorate, si scontra con un uomo che le fa cadere tutta la spesa per terra.
-Scusa! Non ti ho vista, perdona- .
Dice il tipo accucciandosi per raccogliere i resti.
-Nulla…nulla…anch’io ero sovrappensiero…ahia! Porc…! Mi hai fatto male però…alla fronte!-
Elisa si tocca il viso ed effettivamente viene fuori un bel bernoccolo sulla fronte!
-Sono mortificato! Posso accompagnarti in un bar per metterci un po’ di ghiaccio?-.
-No, non preoccuparti abito qui vicino…-
-Allora mi devi concedere di accompagnarti, con tutta la spesa!-
Elisa è titubante…
-No, non è necessario…-
Il ragazzo insiste, prende il cestello, va alla cassa, paga tutto e la invita ad uscire dal negozio. Elisa è colpita dalla sua gentilezza. E’ un uomo affascinante e sicuro di sé, anche alto, che non guasta mai. Fuori ha fatto buio ed Elisa è in imbarazzo…
-Ma non è necessario, creda…-
- Insisto, almeno questo, dove abita?-
-A pochi isolati da qui…-
Elisa cammina affianco a quest’uomo sconosciuto, sentendosi stranamente vicina.
Arrivati al portone, tenta ancora una volta di farlo indietreggiare, ma lui non cede. Vuole aiutarla a portare su la spesa.
Apre il portone, salgono in ascensore e arrivano al pianerottolo. Lei con movimenti imbarazzati gira la chiave e lo fa entrare. Si dirige verso la cucina e lui posa le buste sul tavolo. Approfittando del senso di disorientamento e del buio, la prende e la china sul tavolo, buttando per terra le buste. Le alza la gonna, si sbottona i pantaloni e prima che lei abbia il tempo di realizzare glielo infila tutto dentro. Elisa è senza parole, vorrebbe protestare per questa presa di posizione, ma non ne ha il coraggio, il suo gesto audace la eccita e la rende inerme. Si sente bussare alla porta…
-Oddio è lui…!-
L’uomo, pronto, la trascina dietro il divano e la fa sdraiare a terra, lui sopra di lei…
-Shhh! Silenzio!- Dice lui.
- Vediamo chi è e cosa vuole…-
-Amore…sei in casa?
-E’ lui! Me l’aspettavo!- Dice Elisa sottovoce.
L’uomo la penetra silenziosamente, Elisa ha un sussulto.
-Ci sei? …mi dispiace…-
Lui entra ed esce piano piano dentro di lei…
-Ho detto che mi dispiace…-
Elisa sta per rispondere, allora l’uomo le da una spinta più forte, un’altra ancora, Elisa sta per gemere…Lui si ferma e le mette una mano sulla bocca…. Lei gli sorride, mentre lui sta per esplodere…
- Ma non volevo offenderti…evitarti…-
Lui la penetra nuovamente, stavolta senza remore, lei è calda, accogliente, non si trattiene, sta per venire, le sta per uscire un lamento…si blocca nuovamente e lui la bacia per zittirla… Elisa respira forte. Lui fa fatica a resistere…Questa è la più bella scopata che abbia fatto in vita sua!
-Chi è quest’uomo?-
Sussurra lui all’orecchio, ricominciando a penetrarla dolcemente…
-Un amico, un caro amico…-
-Perché è qui adesso?- Lui continua il movimento del bacino, lento e inesorabile, ma lei non risponde.
Lui si ferma. La guarda.
-Allora?-
Senza risposta. Lui comincia nuovamente a spingere forte, sempre più forte, fino a che …lei…
Elisa si attorciglia sotto il suo corpo, come tramortita, trasportata da lui, che le fa fare quello che vuole…
-Siiii…-
Lui le copre nuovamente la bocca.
- Allora, chi è, cosa vuole da te?-
-Non lo so!
-Dimmelo!-
E continua a spingere, con più ardore, le allarga le gambe, le accarezza le cosce, gli afferra il sedere, se la spinge a se, fino a sentirsi tutto dentro, fino a possederla completamente… Lei cerca di trattenersi…di soffocare il piacere…lui ancora e ancora…
-Cosa vuole da te! Dimmelo!-
Elisa, frastornata, presa, al limite dello spasmo, irretita, avvolta, tenuta, sottomessa, soggiogata, inebetita, catturata, conquistata, innocente…
- Ma che cavolo ne so io!-