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Almeno mi racconto, la sfida di Daniela Rindi
luglio 21, 2011 Cultura
Recensione di Claudio Esposito
“Almeno mi racconto” (Edizioni Il Foglio, 2011), di Daniela Rindi, è una raccolta di racconti brevi (per la precisione 48, di cui uno in 8 puntate… suddivisi in due capitoli, il primo: “Microstorie isteriche di donne quasi sane”, e il secondo: “Microstorie isteriche di uomini quasi sani”).
L’autrice, che ho conosciuto personalmente dopo una frequentazione di comuni siti letterari on line, la definirei così: una donna esuberante, dalla poliedrica personalità, sensibile e aperta al mondo, ma anche a volte malinconica e riservata, persino fragile… insomma, un’autrice che, come un prezioso diamante, presenta numerose sfaccettature, da ammirare e gustare, come i suoi racconti, microstorie e psicodrammi del quotidiano, da centellinare e gustare con calma, come un buon vino che bene si accompagna al quotidiano pasto che ci riserva la vita.
I racconti della raccolta sono vari e diversificati nella forma; il contenuto spazia a volo radente nella concretezza della banale vita di tutti i giorni, nel surreale, nel dramma, nel comico, nella malinconia, mettendo a fuoco con leggerezza, ironia e commozione i caratteri, i sogni, le delusioni e le speranze degli “eroi” del libro: uomini e donne di ambienti e ceti sociali diversi, ma accomunati da stati d’animo e sensazioni simili. Come l’importante manager di “Per un giorno soltanto” che, a dispetto dell’apparente successo raggiunto, si sente “un’incompresa cronica, destinata all’alienazione”; così come Elisa (alter ego di Daniela, presente in molti racconti), quarantenne insoddisfatta di “Dis-Play”, che passa le sere a fantasticare su Facebook “davanti ad un computer a delirare con me stessa, con un certo senso di frustrante continuità”, per poi programmare un improbabile elenco di azioni e propositi per il futuro, come se lei stessa fosse un database da resettare, per “scansionare la propria vita con programmi ‘antivirus’… sviluppare procedure per contenere un’infezione quando incontrata… e tutelare i settori più delicati del disco fisso, o cervello…”
Altri personaggi, invece, riscattano la loro grigia esistenza immergendosi in un mondo surreale, come “La donna cannone”: “Al termine della giornata, quando si spengono le luci, si smontano le giostre e si rientra nelle proprie roulotte per ripartire, mi fermo un attimo ad osservare il cielo, i pianeti e mi ritrovo in mezzo a tante stelle. Io sono sempre in un cielo diverso…” E come la protagonista de “La bolla mondo”, che entra felice nella fantastica sfera volante: “… sto volando sopra la città, vicino alle nuvole, ma sto bene, non ho paura. Sto vivendo e viaggiando indisturbata nella mia bolla-mondo. Non sento il desiderio di tornare giù. No, no, non ci torno più. Finalmente la pace.”
La Rindi tratteggia poi con maestria e levità tutta una serie di ritratti e situazioni, spaccati di vita reale mischiati con scene da teatro dell’assurdo (come il surreale dialogo dei protagonisti de “La giostra”, oppure la fantastica storia in 8 puntate delle due amiche in “Cime di rapa tempestose”).
Per non parlare del delizioso “Al presente non si comanda”, strambo progetto di vita di coppia ‘sincopato’, o dell’originalissimo “Corrugato”, in cui Daniela si sbizzarrisce in tutta una serie di esilaranti disquisizioni sul significato del termine corrugato: “Sei proprio una faccia da corrugato… tra noi è finita, c’è un corrugato che ci separa… corrugato potrebbe essere anche uno strano animale da cortile che cammina muovendo la testa avanti e indietro a ritmo cor-ru-ga-to, come in una marcetta militare… corrugato è uno strano tipo di vino che viene lasciato invecchiare su un carro sotto il sole… corrugato è mio marito quando gli sfuggo dalle mani, è mia figlia che non ha risposte dalla vita…”, per poi concludere che “… il corrugato rimane solo un pezzo di plastica in realtà, che guida e protegge fili di corrente. Il corrugato è corrugato e basta, diciamolo, e in fondo il suo nome gli sta proprio bene.”
Mi piace, a questo punto, concludere questa recensione con le parole di Daniela Rindi, tratte da una sua recente intervista: “La forma del racconto mi è congeniale. Sono una persona che non gira attorno alle cose, ma va dritta al sodo e così è la mia narrazione. Nel racconto sintetizzo una storia, la riduco alla sua essenza, senza fronzoli e non necessarie divagazioni o descrizioni. Semplifico anche le parole, i pensieri, perché quello che voglio raccontare deve emergere dai fatti; la leggerezza, l’ingenuità che cerco di dare ai personaggi in realtà hanno lo scopo di mostrarne la complessità, il dramma. Tagliare, limare, eliminare fino a ottenere l’essenza. In questo sta forse la complessità del racconto rispetto al romanzo. Nel racconto devi contenere tutto in poche pagine, valutando attentamente ciò che è superfluo. Sotto quest’aspetto il racconto è una sfida”.
E questa sfida credo proprio che l’autrice l’abbia vinta, essendo riuscita a confezionare un piccolo gioiello di narrativa “espressa”, così raro e difficile da trovare nell’attuale panorama dei nuovi scrittori, troppo spesso frequentato da intellettualoidi verbosi e autoreferenziali…
Da questi ultimi la Rindi è lontana anni luce: i suoi racconti infatti sono semplici, lievi e coinvolgenti, popolati da personaggi ordinari, ma trasportati nella dimensione speciale della fantasia, del sogno e del paradosso.
E proprio in questo consiste l’arte del narrare.
Claudio Esposito
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